archives of global protests | www.agp.orgMILITARIZZAZIONE IN CHIAPAS
UN SOLDATO PER FAMIGLIA
Jesús Ramírez Cuevas
Dal 22 di dicembre, le truppe dell'Esercito Messicano hanno realizzato 44 incursioni in numerose comunità zapatiste, inclusa La Realidad. La presenza militare, che era già forte, è aumentata ancora di più. Oggi, nella Selva, il rapporto è di un soldato per famiglia (di sette componenti). Nel municipio di Chenalhó c'è un soldato ogni 20 abitanti e nei dintorni di Polhó, dove si concentrano i rifugiati di quel municipio, il rapporto è di un militare ogni dieci civili. La militarizzazione continua ad essere l'unica risposta istituzionale per i popoli indios: più soldati a testa che dollari. Dopo il massacro di Acteal, l'Esercito Federale ha realizzato più di 44 incursioni in 33 comunità zapatiste della Selva, del Nord, di Los Altos e della Frontiera. L'azione militare si è concentrata in 15 municipi autonomi e ribelli, in maggioranza molto lontani di Chenalhó. In questo municipio sono arrivati 2 mila soldati che hanno installato 18 accampamenti in un pari numero di comunità e piccoli gruppi di capanne. Si ha detto pubblicamente che si trattava di una campagna di "despistolización" programmata già da tempo, però nei fatti è stata un'offensiva alle comunità zapatiste basata in perquisizioni, interrogatori agli abitanti sulla ubicazione di accampamenti ribelli, sui dirigenti zapatisti, sulle armi e le radio di comunicazione. I militari hanno pure saccheggiato case, spacci comunali, cooperative e hanno persino rubato denaro. Il Segretario della Difesa Nazionale, Enrique Cervantes Aguirre ha avvertito che l'Esercito messicano continuerà a rimanere in Chiapas e "disarmerà tutti i gruppi e le persone che trasportino o custodiscano armi". "Non c'è eccezione nell'applicazione della legge", ha aggiunto alludendo all'EZLN. Con l'avallo dell'Esercito federale ed l'appoggio della presidente della CNDH, Mirelle Rocatti, queste dichiarazioni rappresentano in effetti una minaccia, non per i paramilitari - che sembrano continuare a godere di una perenne impunità - ma per i popoli zapatisti. Quindi a partire dalle dichiarazioni del titolare della Difesa, le truppe hanno ricominciato le loro incursioni nelle comunità indigene. Circa 100 soldati sono entrati nell'ejido Jalisco di Altamirano, il 22 gennaio. Quasi contemporaneamente sono stati installati nuovi posti di blocco militari in Chenalhó, Tila e nelle vallate della Selva. Geografia della militarizzazione Attualmente esistono più di 50 mila soldati distribuiti solo in 4 delle 9 regioni dello stato. Le truppe si sono concentrate nella Selva, nel Nord, nella Frontiera e in Los Altos dove vivono indigeni tzotziles, tzeltales e tojolabales. Sono installati in 54 accampamenti e 32 caserme ubicati in 20 municipi abitati in maggioranza da indigeni. Questi dati fanno parte di un rapporto elaborato da Masiosare su informazioni del ricercatore Arturo Lomelí e di organizzazioni indigene e contadine di quelle zone, e grazie alle relazioni di alcune organizzazioni dei diritti umani come il Centro Fray Bartolomé de las Casas ed Enlace Civil. In alcuni casi, come nella regione della Selva, c'è un quasi soldato per famiglia (di 7 componenti). Anche solo nelle vallate della cosiddetta "zona di conflitto" (che comprende i municipi di Altamirano, Ocosingo e Las Margaritas e con una estensione di quasi un quarto della superficie dello stato) ci sono almeno 36 mila 500 soldati in 24 accampamenti e 21 caserme, di cui molti installati a fianco delle comunità. La popolazione in questa regione è di circa 300 mila abitanti. Lì esistono circa 25 posti di blocco dove i militari applicano la Legge Federale sulle Armi di Fuoco e sugli esplosivi, perquisendo veicoli e persone che circolano per le strade che vanno verso la Selva Lacandona. Nella regione dove si trova La Realidad sono distaccati migliaia di soldati, a non più di 20 chilometri da questa comunità tojolobal, considerata il bastione zapatista. Al nord sono nella caserma di San Quintín, nell'accampamento di Nuova Provincia e in due accampamenti costruiti ai bordi del torrente Euseba, a solamente tre chilometri dalla Realidad. Dal lato sud c'è la caserma di Guadalupe Tepeyac. Nel caso del posto di blocco di Guadalupe Tepeyac - questo villaggio tojolabal è diventato una grande caserma delle truppe dell'Esercito dall'offensiva del 9 febbraio 1995 - la perquisizione è ancor più rigorosa. I soldati aprono le valigie, i sacchi ed i pacchetti dei viaggiatori, e davanti alle telecamere. Tutti i fogli sono guardati ed un soldato filma tutta la operazione. Nella regione di Los Altos (12 municipi) gli effettivi castrensi arrivano ad al 10 mila e 500 - contando i 2 mila che sono giunti a Chenalhó in questi giorni. Soldati ed equipaggiamento sono distribuiti in 20 accampamenti e in 5 caserme ubicati in sette municipi. In questa regione vivono circa 250 mila persone, in maggioranza indigeni tzotziles. Lì, la proporzione è di 25 abitanti per ciascuno soldato. In Chenhaló è di 20 a 1. Nella zona di Polhó e dintorni la relazione potrebbe essere di 10 abitanti per militare. Nella regione Nord ci sono 12 accampamenti e sette caserme militari occupati da circa 10 mila soldati. Lì abitano circa 200 mila persone, così che c'è un soldato ogni 20 abitanti. La densità militare in Chiapas è stato molto alta dal 1994 e nell'ultimo mese è cresciuta un altro po'. L'Esercito è avanzato nelle zone di influenza zapatista ed ha installato nuovi accampamenti (circa12) in Chenalhó, Altamirano, Ocosingo, Las Margaritas. Contro l'economia dei villaggi Ad un mese dall'inizio dell'operativo per requisire armi da fuoco ed esplosivi, nessun paramilitare è stato arrestato o disarmato in Chenalhó, Tila - dove il gruppo Pace e Giustizia ha posti di blocco -, Sabanilla, Tumbalá, Ocosingo, né in tutta la regione di Los Altos. I 45 incarcerati per i fatti di Acteal sono stati arrestati da agenti della Procura Generale della Repubblica nelle due prime settimane posteriori al massacro. In Chenalhó, dove i soldati realizzano il "lavoro sociale", l'Esercito non ha realizzato sequestri, nonostante che si creda che in questo municipio i paramilitari hanno messo insieme armi prima dell'attacco. Salvo alcuni posti di blocco intermittenti, l'Esercito federale è accampato nelle scuole dei villaggi, offre visite mediche, taglia i capelli ai poveri e ricostruisce alcune case bruciate. Il Consiglio Autonomo di Chenalhó ha denunciato che elementi dell'Esercito aiutano i priisti nella raccolta del caffè - però le coltivazioni appartengono ai profughi -. Per comprovare questa denuncia, Luciano presenta fotografie che mostrano soldati che stanno raccogliendo e caffè in una comunità abbandonata. In un'altra foto, un soldato posa di fronte ad una casa abbandonata, puntando la sua arma verso la porta. Distruggere i mezzi di sussistenza ed impedire la semina e la raccolta dei prodotti più commerciabili, e addirittura di quelli per la sopravvivenza come mais e fagioli, fa parte della strategia. Nelle regioni indigene si vive una economia di guerra. La disputa per i prodotti agricoli e le risorse naturali fa parte di questa guerra. L'occupazione militare danneggia i lavori agricoli delle comunità. E in luoghi come Chenalhó, facilita il saccheggio dei prodotti commerciabili come il caffè. Il Battaglione 83 Le investigazioni sui gruppi armati non hanno toccato il punto delicato del possibile coinvolgimento di elementi dell'Esercito con gruppi paramilitari. Restano senza spiegazione fatti come lo spostamento allo stato di Veracruz del Battaglione 83, che era di stanza nella caserma di Rancho Nuovo, sede della 31º zona militare. I componenti di questo battaglione erano stati distaccati in Chenalhó e molti di loro sono indigeni tzotziles originari di questo municipio. Alcuni di questi soldati e ufficiali sono stati segnalati da indigeni di varie comunità come responsabili di aver addestrato e rifornito gruppi paramilitari. Il vedovo di Guadalupe "Meglio morire lottando che morire nella miseria e nell'oblio", dice Gilberto Santiz López, marito di Guadalupe Méndez López, la fragile donna assassinata dalla polizia il 12 gennaio. "Siamo contadini che lottiamo per la pace e la giustizia. Siamo stati a Ocosingo a protestare per i maltrattamenti della polizia e dell'Esercito, non li vogliamo nei nostri villaggi", aggiunge, nel giorno della sepoltura della sua sposa. La protesta contro le incursioni militari è cresciuta nella Selva ed ha unificato le otto organizzazioni indigene di Ocosingo, Altamirano, Sitalá, Oxchuc, tra le altre, che hanno pure occupato la città per una settimana. "La presenza dell'Esercito è incostituzionale", hanno segnalato in un documento diretto alla 39º zona militare e che è stato consegnato nella caserma, nel mezzo di una manifestazione indigena. "L'installazione di posti di osservazione e di perquisizione, i pattugliamenti aerei e terrestri, le perquisizioni, i posti di blocco lungo le strade, violano flagrantemente le garanzie di libero transito, di riunione e di associazione, di legalità e di sicurezza giuridica, consacrate dalla Costituzione", hanno detto in un altro documento, diretto al presidente Ernesto Zedillo ed al titolare della Sedena da parte delle organizzazioni indigene ARIC, ORCAO, Tzoman, Tres Nudos, CNPI ed altre ancora. Il documento continua: "Per ciò che riguarda il lavoro sociale che realizza il personale dell'Esercito nelle comunità, è opportuno chiarire che i presunti servizi che presta non sono compito che compete loro per Legge. Questi compiti competono alle segreterie di Salute, di Sviluppo Sociale, di Agricoltura, di Ambiente e sono definite nella Legge Organica dell'Amministrazione Pubblica Federale". Le organizzazioni indigene di Ocosingo e di altri sei municipi richiedono: "Che si smantellino le caserme che non ci lasciano vivere in pace e che immediatamente vengano predisposte le misure e si determini la forma ed la modalità del ritiro delle truppe, e che rimangano unicamente quelle che siano strettamente necessarie per il rispetto delle obbligazioni che la Costituzione impone". I paramilitari continuano ad essere liberi "Non abbiamo ancora giustizia, gli assassini sono ancora liberi e passeggiano per Chenalhó e per gli altri villaggi. Vogliamo che il governo arresti gli aggressori però non ci sono progressi e così non possiamo ritornare al nostro villaggio", dice Agustín Pérez, indigeno di Acteal, ad un mese dal massacro. Agustín non dimenticherà mai quel 22 di dicembre, quando ha perso familiari e amici. Prosegue dicendo che non c'è ancora giustizia, ma solo più pericolo e paura. Come gli altri 10 mila rifugiati in Chenalhó, sente timore perché sa che i paramilitari priisti continuano a camminare ancora liberi in varie comunità del municipio: Canolal, Pechiquil, Tzajalucum, la Speranza, Los Chorros, Chimix, Bajoveltic, Yaxjemel e Puebla. Benché in quegli stessi luoghi ci siano accampamenti dell'Esercito messicano e posti di Polizia, questi "non arrestano i paramilitari perché stanno facendo il loro lavoro sociale. Neanche i loro capi, come Cristóbal Vázquez Vázquez e Victorio Cruz Velázquez, che passeggiano per il capoluogo municipale", dice Agustín. I loro sospetti sono stati confermati quando il 22 gennaio hanno saputo che i paramilitari si sono riuniti per rilanciare i loro attacchi. Le forze di sicurezza, al posto di cercare e di arrestare i più di 200 priisti che continuano ad essere armati, preferiscono sorvegliare i rifugiati. Così, quel giorno, mentre decine di uomini e donne pregavano ed intonavano inni religiosi in memoria dei 45 morti, un elicottero della PGR li ha sorvolato a bassa quota per cinque minuti, sferzando le lamine dei tetti e provocando agitazione fra gli indigeni che assistevano alla celebrazione religiosa. "Gli aggressori di Acteal che non sono stati arrestati, continuano a fare riunioni in Canolal e La Speranza. Una settimana fa - dice mentre passiamo vicino alle tettoie di lamina di cartone e di legno che sono state costruite nel luogo dove è successo il massacro -, c'erano voci che i paramilitari stanno preparando un altro attacco. Abbiamo paura perché abbiamo già visto che sono arrivati ad uccidere dei nostri compagni. Le donne hanno molto paura", ribadisce Agustín. "Vogliamo giustizia, che arrestino gli aggressori e che possiamo ritornare, però non ci sono progressi", reclama Agustín prima di entrare in una delle nuove capanne costruite sulla spianata che è stata il palcoscenico del massacro, per partecipare ad una riunione delle Abejas, organizzazione della società civile indigena. In Polhó ci sono 10 mila rifugiati che hanno perso le loro case ed i loro averi da quando è cominciata 4 mesi fa l'offensiva paramilitare contro 14 comunità. Si sono rifiutati di ricevere direttamente gli aiuti governativi, perché non confidano nelle autorità. La loro sfiducia si riconferma quando si rendono conto che il governo non ha smontato la infrastruttura dei paramilitari e continua a far pressione sui villaggi che simpatizzano con l'EZLN. In maggioranza sono basi di appoggio zapatista, un altro gruppo numeroso sono Las Abejas e un altro ancora è formato da priisti che sono fuggiti delle aggressioni e minacce dei paramilitari nelle loro comunità per non cooperare con loro. I gruppi paramilitari continuano ad essere attivi in 10 comunità che geograficamente formano un cordone che circonda le decine di accampamenti di rifugiati. I soldati ed i poliziotti si situano pure intorno agli accampamenti. Al posto di realizzare operativi di disarmo e disarticolazione dei paramilitari, i soldati si sono dedicati a sorvegliare i rifugiati, le strade ed il "lavoro sociale". In questo schema di guerra, la convergenza di tutti questi rifugiati in Chenalhó, facilita il controllo militare che cerca di isolare l'EZLN dai villaggi ribelli. Intifada Indigena "Se vogliono uccidere, ammazzatemi", aveva esclamato Manuel aprendo la sua camicia di fronte ai soldati che puntavano contro le donne ed i bambini dell'ejido Morelia. Era la terza incursione militare di questo anno nel suo villaggio. Manuel, di dieci anni, ed i suoi amici stanno faccia a faccia con i soldati, e sfidandoli gridano: "Non vi vogliamo nel nostro villaggio, andatevene, vogliamo vivere in pace", dicono ai militari che puntano i loro fucili automatici G-3 e M-16. - Venite bambini per di qua. Se non vi togliete vi arrestiamo - si mette a dire un soldato quando i piccoli lanciano pietre ai militari. Un soldato non lo sopporta e restituisce il lancio. Allora arrivano le donne. Con i bambini davanti, a grida e spintoni, obbligano i soldati a ritornare un chilometro indietro. I soldati tentano di nuovo di avanzare però la determinazione infantile e femminile glielo impedisce. E non solo, li ributta indietro di altri due chilometri. Fronte a fronte, bambini e donne disarmati, si scontrano con i soldati che cercano di entrare nei loro villaggi. È l'immagine di un esercito di occupazione che si scontra con la popolazione civile che lo rifiuta. Questa storia si ripete per tutta la geografia indigena delle comunità ribelli. L'offensiva politico-militare del governo si è incentrata contro i villaggi che sono basi d'appoggio zapatiste. L'obiettivo è strappare il vincolo tra la popolazione civile ed i combattenti dell'EZLN, vincere la resistenza dei villaggi. Così è stato il 9 gennaio nell'Ejido Morelia, quando 170 soldati avanzavano in nove veicoli verso l'entrata del villaggio. I bambini che giocavano lungo la strada che viene dal capoluogo municipale se ne sono resi conto e hanno posto delle pietre in mezzo alla strada per fermarli. Un gruppo di loro è corso al centro di Morelia per suonare la campana. Quello è stato l'allarme. Ai bambini si sono aggiunte 60 donne. Ad alcuni centimetri dai fucili, i bambini affrontano le truppe dell'Esercito federale. Così è trascorso il Giorno dei Re Magi per i bambini del municipio 17 Novembre, fra soldati e blindati. "Dal primo di gennaio non abbiamo potuto raccogliere nè legna, né fagioli, né mais, né caffè. Tutto sta marcendo. Gli uomini non possono andare a lavorare nei campi" dice Rosa, tzeltal, madre di tre bambini. "I soldati vogliono entrare per addestrasi sempre più dentro la selva e ci hanno detto che entreranno perché vogliono entrare". (tradotto dal Comitato Chiapas di Torino)