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LEZIONI DI INCONTRARSI Tra le ragioni degli indios e le usanze della "gente di ragione"* Ci siamo di nuovo incontrati. Giungevamo da molte parti, con propositi e motivi molto diversi, a partire da posizioni ed atteggiamenti molto differenti. Eravamo molti e molte e il nostro possibile denominatore comune non appariva evidente e preciso; il tentativo di dargli una definizione provocava spesso conflitti ed opposizione anziché accordo. E, tuttavia, ci siamo incontrati. Abbiamo combinato il senso originale della parola incontrare (opporsi con ostilità, incontrarsi in un conflitto), proprio della sua etimologia (in e contro), con il senso contemporaneo del termine incontro: coincidere in un punto, incontrarsi. A mio modo di vedere, abbiamo intrecciato a partire dalle nostre diversità il tessuto della nostra opposizione, della nostra resistenza. Nel territorio comune marcato così dalle nostre lotte, abbiamo creato opportunità di liberazione. Ho sentito in Spagna ,e ho continuato a sentire anche dopo, lamentele, rimostranze e scontentezze nei confronti dell'Incontro in sé, degli organizzatori, dei partecipanti e addirittura degli assenti. Non esaminerò qui queste questioni. Alcune sono fondamentalmente irrilevanti; altre, che non lo sono, sono entrate in qualche modo a far parte della coscienza generale, per cui non è necessario dilungarsi su di esse. Le critiche più acute e feroci contro l'organizzazione, per esempio, le ho sentite dagli organizzatori stessi -il che significa, a mio parere, che abbiamo appreso dagli errori e dalle storture e che cercheremo di non ricadere in essi. Invece di una enumerazione di questo tipo, che può risultare faticosa ed irritante, presenterò un'elaborazione della mia esperienza nell'Incontro concentrata negli aspetti che causano in me ancora perplessità e che, a mio modo di intendere, necessitano di maggior discussione e riflessione. Non faccio sintesi né cerco una conclusione. Rifletto sulle questioni rimaste aperte o la cui esplorazione non è stata approfondita. I mezzi ed i fini Non è stato facile incontrarsi. Oltre alle distanze fisiche, ideologiche o linguistiche e alle difficoltà organizzative e logistiche, ci separavano le distanze culturali. Per alcune culture, l'intento di un Incontro come questo è incontrarsi. L'Incontro è un fine in sé: un'opportunità di praticare l'ospitalità nei confronti dell' "essere altro" degli altri (la otredad de los otros). Per altre culture un incontro non è che un mezzo per raggiungere certi fini; se non si ottiene un contributo in questo senso l'incontro viene considerato inutile. Non si tratta di una questione secondaria nella logica dei nostri incontri. Sin dall'inizio si è creata una tensione tra chi sfruttava appieno l'opportunità di incontrarsi con altri come loro, e chi cercava di raggiungere un risultato specifico: un manifesto, un'organizzazione, una linea politica, una manifestazione collettiva di forza, un'adesione collettiva ad un'agenda specifica, un solido passo verso l'unificazione mondiale delle lotte o verso la costruzione di un denominatore comune ideologico, politico, organizzativo... I primi si entusiasmavano, innanzitutto, per la costatazione diretta e viva della ricchezza e della moltiplicità delle lotte. E poi si dedicavano ad apprendere dagli altri, a concertare forme specifiche di interazione, a tèndere ponti, a specificare convergenze e divergenze, ad apprezzare differenze, alle mille incombenze che l'Incontro imponeva. I secondi passavano di frustrazione in frustrazione, dato che incontravano ogni sorta di ostacoli e resistenze quando cercavano di dare impulso alle proprie agende ideologiche, politiche od organizzative. Tra questi ci furono alcuni che hanno scoperto nel cammino il senso intrinseco dell'incontrarsi, la ragione di farlo, e riposero per un'altra occasione i piani e i mandati che portavano; altri hanno mantenuto i propri obblighi fino alla fine ed hanno portato con sé, ritornando nei loro paesi di origine, la frustrazione del loro (mancato) incontro (desencuentro). Per alcuni distinguere e separare i mezzi dai fini è indispensabile. Il comportamento razionale, la ragione stessa, per loro si definisce perseguendo fini coerenti tra loro ed impiegando i mezzi appropriati per raggiungerli. Per altri questa operazione è impossibile -i mezzi non sono che l'altra faccia dei fini. La loro separazione arbitraria ed astratta è fonte di confusione e spesso di violenza. La tensione (tra) queste due concezioni si è manifestata nel secondo Incontro, così come era successo nel primo. Universo, pluriverso A questa tensione se ne aggiungeva spesso un'altra, elevata in certi momenti a livello di contraddizione: la tentazione o l'obbligo ad allinearsi ad una supposta o reale ortodossia zapatista, e l'intenzione cosciente, aperta e generalmente sana di evitarla. C'è una tendenza al consenso per quanto riguarda l'inesistenza di un'ortodossia zapatista il che continua ad essere motivo di preoccupazione o di scoramento per chi sperava di trovare nello zapatismo una nuova vera ortodossia. È al contempo evidente, però, che esiste uno stile zapatista, singolare ed unico, uno stile di culture specifiche, ben radicate nel proprio territorio, che a partire da sé si aprono agli altri. È possibile imparare da loro, senza dubbio. Ma hanno fallito i tentativi di imitare o riprodurre questo stile -tra le altre cose perché risulta fuori luogo, sradicato, quando lo adottano altri da altre parti. L'idea delle "avanguardie illuminate" ha perso peso e sostegno. Ciò non implica, tuttavia, l'aver smesso di considerare che la guida dei processi di trasformazione debba essere a carico di un gruppo più o meno minoritario od elitista, che possiede la "verità storica" della trasformazione e l'appropriata capacità di leadership. Per coloro che adottano tale concezione, alcuni soggetti sociali (gli operai organizzati innanzitutto) continuano ad essere i protagonisti centrali del cambiamento, coloro che devono guidarne i relativi processi, in particolare nei paesi industrializzati, e nei quali risiederebbe ancora l'iniziativa o, per lo meno, la responsibilità principale. Ognuno di questi punti è motivo di intensi dibattiti che non sfociano, in genere, in alcuna forma di consenso, bensì nella moltiplicazione di gruppi che si organizzano attorno a qualcuna delle posizioni oggetto della disputa, con la finalità ultima di "prendere il potere" e guidare i cambiamenti "dall'alto verso il basso". Di fronte a questo insieme di posizioni differenziate è andata rafforzandosene una che ha accantonato questo dibattito considerandolo sterile o controproducente. Questa corrente di pensiero ed azione concentra la propria attenzione nella creazione di spazi politici in cui la gente stessa, uomini e donne comuni, possano ottenere, mantenere ed esercitare il potere per organizzare e realizzare la trasformazione "dal basso verso l'alto" e, soprattutto, per far sì che nel risultato della propria azione, nelle nuove forme di organizzazione sociale e politica, si mantenga questa condizione sociale e politica, si mantenga questa condizione orizzontale ed aperta dei cambiamenti. Non si cerca né si sente il bisogno di una èlite che faccia da guida, anche se ovviamente esistono leaderships, modi di esercitarle e controllarle e di prendere iniziative. Per il primo insieme di posizioni, la priorità dell'agenda politica continua ad essere l'unificazione di tutte le lotte attorno ad una dottrina comune; di fatto, si considera che nell'era della "globalizzazione" questo atteggiamento sia più valido che mai. Per la seconda corrente, ciò che interessa è collegare e combinare le lotte di resistenza e liberazione, a partire dal riconoscimento della loro opposizione comune a ciò che, semplificando, viene chiamato "neoliberismo". Ognuna delle lotte, che risponde a forme di classificazione ed raggruppamento sociale e politico molto diverse tra loro, ha i propri motivi e ragioni per collegarsi e non è necessario omogeneizzarle o gerarchizzarle: nessuna delle lotte o delle "verità" che le definiscono avrebbe priorità sulle altre -salvo che in termini di richieste immediate di solidarietà di fronte a "crisi" specifiche. Secondo questa posizione, l'analisi di classe o il contenuto classista delle lotte continuano ad essere rilevanti, ma vengono concepite in modo diverso e con altre implicazioni pratiche. Il dialogo tra chi continua immerso in un universo, facendosi quindi portatore di una concezione universale, e chi si riconosce in un pluriverso, difendendo conseguentemente il pluralismo, considerando che esso non è impossibile, implica lo sfuggire all'universalismo convenzionale senza cadere nel realativismo culturale. La visione della storia che sosteneva l'immagine di un mondo compiuto, retto dalla ragione e dal benessere, sembra già matura per il museo, assieme all'ideologia del progresso che le offriva garanzia di unità. Le posizioni dogmatiche racchiuse in un corpo di dottrina rigido e chiuso sono diventate sempre più insostenibile nell'attuale congiuntura mondiale: quando non si rifugiano in fondamentalismi che aborriscono qualsiasi forma di incontro, si vedono obbligati ad aprirsi ad altre concezioni. Però non è facile che queste aperture di posizioni differenziate o contrapposte trovino condizioni che realmente facilitino la formazione di consensi. Gli incontri stimolati dagli zapatisti rappresentano chiaramente una via per propiziare questa interazione, tra l'altro perché resistono al totalitarismo del logos e non si lasciano ingabbiare da esso. Predominano in essi gli uomini e le donne direttamente coinvolti in lotte specifiche, nei propri territori, dediti alla resistenza e al confronto con le forze dell'oppressione nelle sue multipli forme. Sono portatori di un'esperienza vitale concreta che nutre una sostanza comune, su cui può aprirsi quel dialogo di cui si ha bisogno -come accadde in Chiapas e come si è potuto vedere chiaramente in Spagna, dove hanno cominciato a mostrare i propri risultati le interazioni avviate durante il primo Incontro e che si sono mantenute durante l'anno. Questa interazione "a vista", tuttavia, continua ad essere motivo di insoddisfazione. Nonostante i dibattiti che si sono generati o arricchiti, il moltiplicarsi di iniziative locali-regionali-nazionali, l'efficacia nelle risposte di solidarietà e molti altri sintomi di vitalità, persiste la sensazione che sia necessario dare qualche forma di continuità agli incontri tessendoli gli uni con gli altri attraverso dei meccanismi specifici. A volte penso che la questione sia irrilevante e che non vi sia motivo di porsela. Altre, credo che meriti di venire considerata con attenzione. Un "No", molti "Sì" La volontà di incontrarsi è stata senza dubbio un vigoroso motore dei nostri incontri. Però questa stessa volontà, con i suoi diversi motivi e ragioni , è causa di innumerevoli mancati incontri (desencuentros). L'interminabile discussione sulla "rete" che le borse di resistenza devono formare, illustra bene questa questione. Noi tutti vogliamo mantenerci collegati e ci sono molti sforzi ancora da realizzare per la costruzione di meccanismi articolatori. In questo impegno comune, appare ad ogni passo la tentazione di alcuni di creare una rete globale e compiuta capace di opporre alle gigantesche forze organizzate del capitale una forza egualmente gigantesca di resistenza. La manifesta impossibilità di articolare una simile rete non inibisce chi appare ossessionato dalla sua costruzione. Non li soddisfa la manifesta efficacia delle molteplici reti esistenti, che si deve in buona misura al sensato riconoscimento dei limiti di ogni realtà coinvolta, il che permette di evitare l'arroganza di qualsiasi pretensione totalizzante. Sospettano che lo sforzo di integrazione sia stato insufficiente e persistono nella sua realizzazione. Nel frattempo si continua a fare enfasi sul moltiplicarsi delle iniziative che articolano idee ed azioni, su cui sembrano concentrarsi i più. Ho l'impressione che il secondo Incontro abbia continuato ad accreditare un approccio alla questione che tende ad incanalare le contrapposizioni e le contraddizioni in modo efficace. Si comincia a riconoscere in modo sempre più esplicito che, nell'azione politica per la realizzazione di impegni collettivi generali, dire di no può essere il modo più completo e vigoroso di affermarsi. Il "no" che unifica, come espressione di un'opposizione condivisa, contiene sempre un "sì": l'affermazione radicale di ciò che si è, di ciò che si vuole. Però mantenersi nel no, nel rifiuto a ciò che non si vuole, senza pretendere di condensare le molteplici affermazioni di chi condivide la negativa, permette l'affermazione di questa pluralità, che definisce il mondo così com'è, e potenzia la forza politica del rifiuto e la sua capacità di proteggere la capacità di iniziativa di chi si afferma nei propri spazi, mutuamente appoggiati dal no. I politici e i loro partiti, sempre bisognosi di adepti, considerano impossibile o poco produttivo concentrarsi nel "no". Cercano costantemente proposte affermative, che possano raccogliere ideali condivisi di gruppi ampi di popolazione. Immancabilmente tradiscono le speranze reali della gente, trafficano con esse, e le restituiscono in cambio di promesse astratte che non possono mantenere. I motivi di quanti si oppongono ad una diga o ad una centrale nucleare possono essere i più svariati. Ci sarà chi in questo modo difende i propri spazi vitali specifici, ed altri che lo faranno in nome di ideali generici. In generale, è impossibile raggiungere il consenso tra di loro in quanto a ciò che essi sì vogliono, ma questo non significa che siano carenti di proposte affermative: implica solamente lo sbrigliare la ricchezza della propria diversità per nutrire la formulazione comune di un rifiuto specifico. La storia recente è particolarmente ricca di esempi di movimenti sociali e politici che hanno avuto successo nei loro impegni di contenzione, di rifiuto, di limitazione. Sono stati capaci di dire "No, grazie", con effettività e buon senso. Ognuno di questi successi si è tradotto in una efficace affermazione delle diverse iniziative dei coalizzati in una lotta specifica. Con sfortunata frequenza questi movimenti hanno cominciato a fallire o sono stati smantellati quando la propria dinamica specifica li ha portati alla formulazione di proposte affermative. Perdendo inevitabilmente consenso, si debilita la loro forza trainante, che tende a disperdersi. Molti movimenti, che sembravano vigorosi nella loro fase iniziale, non sono riusciti a decollare o hanno perso rapidamente la loro vivacità, proprio per questa propensione a dare un contenuto affermativo alle proposte politiche. Dato che i fenomeni "globalizzati" sono reali, ed esistono soggeti concreti che li alimentano -come le istituzioni internazionali o le corporazioni trasnazionali- acquisisce sempre più senso alimentare ampie coalizioni di scontenti di popoli e culture molto diversi tra loro, che condividono un'opposizione somigliante a questi fenomeni e che poche volte posseggono la forza sufficiente per far valere singolarmente la propria resistenza a livello locale, regionale o nazionale. Per far sì che queste coalizioni posseggano un contenuto appropriato, che permetta di mantenere la propria forza e vitalità senza tradire i propri impulsi originali, la cosa migliore può essere mantenerle sul piano di ciò che esse non vogliono Gli zapatisti sono la prova che testimonia l'efficacia di questo approccio. Dal primo gennaio del 1994 riuscirono ad attivare istantaneamente milioni di scontenti, capaci di formare rapidamente coalizioni politicamente effettive con una sola parola: "Basta!". Ampi strati di popolazione insoddisfatti per i più diversi motivi con il regime dominante si sono sentite affermate in questa espressione di dignità e si sono messe in movimento. Gli zapatisti hanno mostrato in più la saggezza di resistere alla tentazione di guidare tutti questi movimenti per unificarli attorno ad una sola ideologia, un ideale comune di vita o una proposta politica unica. In questo modo hanno permesso che l'affermazione delle molteplici concezioni desse più forza al rifiuto comune. "Basta!" si è trasformato rapidamente in una vigorosa posizione politica, ampliamente condivisa da milioni di messicani che ora affrontano la sfida di articolare e rendere compatibili i loro molto diversi impegni per portare avanti lo smantellamento del regime ancora vigente e cominciare a costruire una nuova società in cui ci sia spazio per ognuno di loro. Dire di no con sufficiente fermezza e convinzione può essere oggi il modo migliore di dire di sì. Il "no" che è andato arricchendosi negli incontri, nutrito da molteplici cammini, non è frutto di una riflessione condivisa né suppone il pieno consenso. "Globalizzazione", per esempio, non è lo stesso di "neoliberismo" o di "nuova suddivisione internazinale del lavoro". Agli incontri giungono partecipanti che hanno concepito le proprie strategie di resistenza e confrontazione a partire da caratterizzazioni molto diverse dell'oppressione contro cui si ribellano e dei suoi agenti. Per cui sorgono, a volte, dibattiti interminabili sulla validità e la verità di ogni approccio, in cui riappaiono le vecchie etichette o che ne inventano di nuove per definire e squalificare l'avversario ideologico. Per cui sorge anche la percezione delle insufficienze insuperabili di qualsiasi astrazione semplificatrice che pretende ridurre ad una sola versione la condizione reale del mondo. Sorge anche, con crescente chiarezza e senza pretese dottrinarie, un doppio impulso. Da una parte, quello di sostituire l'impegno di unificazione omogeneizzatrice assieme ai suoi protagonisti classici e a dottrine divenute convenzionali per un'articolazione concertatrice delle lotte di resistenza, che riconosce in anticipo la loro diversità e risolve le contrapposizioni o le contraddizzioni nel proprio processo. Dall'altra, l'impulso di riconoscere che le lotte di liberazione che si intraprendono a partire dalla resistenza hanno forme e destini differenziati -che definiscono le condizioni, la realtà e le speranze di ognuno. Il mondo che essi concepiscono e che vogliono mettere in pratica è un mondo che contenga molti mondi -che è, forse, la più radicale delle concezioni anticapitaliste. È l'opzione che sembra capace di articolare localismi e globalismi di resistenza e liberazione nell'Internazionale della Speranza, senza dissolverli. San Pablo Etla, marzo 1998 * Il gioco di parole del sottotitolo "Entre las razones de la gente de costumbre y las costumbres de la gente de razón" è intraducibile. Per un retaggio del periodo coloniale, soprattutto nello spagnolo parlato dalle popolazioni indigene, si distingie tra "gente de costumbre", cioè "gente di costume", legata agli usi e ai costumi, quindi gli indigeni, e "gente de razón", cioè i bianchi. |